A metà anni ’90, più o meno all’età di dodici anni, trascorro, come tutte le estati, le vacanze nella casa dei miei nonni, a Montaldo. Finita l’epoca delle corse nei prati, dedico gran parte del mio tempo alla lettura ma in tv passano i video di Oasis e Blur e mi lascio distrarre con massimo godimento. Un giorno, però, apro l’anta di un mobiletto, appoggiato al muro tra il pianoforte e il caminetto, e scopro un tesoro: un giradischi e una serie di 45 giri di Beatles e Rolling Stones. L’armadietto si rivela una specie di macchina del tempo: chiuso da chissà quanti anni, custodisce esclusivamente vinili prodotti in Inghilterra dal 1963 al 1970. Appena compreso il funzionamento dell’apparecchio, metto uno dopo l’altro i singoli sul piatto e vengo colto da una specie di epifania. Gli Oasis e i Blur hanno dei precedenti di trent’anni prima e immediatamente perdono il loro fascino. Mi sento preso in giro dal brit-pop e dalla tv e decido di consacrare le mie orecchie all’ascolto degli originali, lasciando l’interesse per le copie ai miei coetanei. Quella vecchia musica mi sembra provenire da un lontano futuro: mi entusiasmano tutte le canzoni, nessuna esclusa, ma non comprendo il ruolo dei musicisti e il significato dei testi. Non so niente sulla Swinging London, non riesco a distinguere la voce di Lennon da quella di McCartney e tutto assume un alonedi mistero. Non capisco cosa voglia dire l’espressione “Strawberry Fields Forever” o chi sia “Jumpin’ Jack Flash”: è solo rock’n’roll e mi piace. Guardando le copertine, il musicista che colpisce di più la mia attenzione è fin da subito Brian Jones: in tutti gli scatti guarda altrove, ha gli occhi socchiusi o tristi. In assenza di libri sull’argomento, mio zio, il proprietario dei vinili, mi fornisce qualche informazione a riguardo: “Jones era un musicista a tutto tondo, suonava un sacco di strumenti diversi e curava gli arrangiamenti più strani. Ah… è morto giovanissimo, in circostanze oscure”. Così mi dice e tanto mi basta. Nel buio completo della mia ignoranza, i pochi elementi biografici accendono la fiammella della passione. Eppure la canzone che mi intriga di più in assoluto non è degli Stones: è il lato B di “LetIt Be”.Si tratta di un pezzo stranissimo, una sorta di versione musicale di “Alice nel paese delle meraviglie” con un’atmosfera da fumoso locale notturno.“You Know My Name (Look Up the Number)” in effetti è una traccia strutturata in modo anomalo, con quattro sezioni saldate assieme senza la classica alternanza di strofe e ritornello. Tra grugniti umani incomprensibili ed effetti sonori insoliti, la voce solista ripete ad libitum il titolo, di cui riesco a tradurre il significato senza coglierne il senso: “Conosci il mio nome (cerca il numero)”. Il brano, infine, si conclude con uno strambo assolo di sax dal sapore demodé, quasi a segnare l’uscita di scena dei musicisti.L’ultima canzone in ordine cronologico di tutta la collezione è la più enigmatica: anche dopo l’ennesimo ascolto, resto tanto ammaliato quanto spaesato. E alle prese con l’oracolo incomprensibile di “You Know My Name (Look Up the Number)” si apre, dentro di me, una voragine di dubbi. Durante l’inverno successivo, compro i primi libri sui Beatles e gli Stones, colmo le lacune più macroscopiche e scopro il nome del sassofonista della traccia in questione: Brian Jones. Capisco così all’improvviso di aver maturato un gusto personale e di aver individuato il mio eroe. In realtà non è un eroe perché non è né l’autore dei pezzi né il cantante del gruppo.Incarna però un ruolo ancora più seducente ai miei occhi: Jones è l’aiutante magico degli eroi,di Jagger e Richards come di Lennon e McCartney. È il responsabile di un fattore imponderabile e indescrivibile, del dettaglio allo stesso tempo superfluo e necessario, del tocco unico che eleva un brano ottimo a un livello superiore. Rimango almeno, in questo campo, fedele allo spirito dei miei dodici anni. Lascio ad altri l’amore per i protagonisti indiscussi e per i fedeli epigoni e continuo a osservare il culto per il più grande aiutante magico della storia del rock’n’roll. Alla fine dei conti, l’indecifrabile vaticinio di“You Know My Name (Look Up the Number)” l’ho decriptato a modo mio: “Trascura il messaggio, insegui il mistero”. E se riguardo la copertina del 45 giri, con i Beatles davanti a un porticato, non mi soffermo a guardare le barbe e i capelli di John e George, in piedi ai lati dell’arcata, o i sorrisi di Ringo e Paul, seduti sui gradini, ma sbircio nel buio per cercare invano il profilo spettrale di Brian.
Beatles – You Know My Name (Look Up the Number), Giacomo Checcucci
