Tutto Dubito (ci vorrebbero docili e invece tu non)
Dopo due anni in Francia, forse illusionata da speranze chimiche dovute a sopradosi di burro, forse per un ottimismo ingiustificabile, forse per me, perché mi piace uscire anche coi miei genitori e con mio fratello ogni tanto, avevo deciso di tornare in Italia. Gli amici in Francia (ingegneri e imprenditori) mi suggerivano di progettare con un po’ di criterio i prossimi anni (perché non lavori un po’ qui e torni in Italia tra qualche anno, per esempio), ma io (nessuno ha il diritto di giudicare la biforcazione, nemmeno io) mi sentivo pronta a cercare lavoro in Italia (ay, duele) e non sapevo quanto avrei potuto ancora mangiare pomodori che non sanno di pomodoro o quanto fosse lontano il mio limite di sopportazione all’ascolto dei pardon per la strada. In estate torno e passo mesi a coltivare gli affetti e a scrivere un progetto di dottorato che poi non presento, trovo un tirocinio che mi elemosina la Regione e prendo servizio in dicembre a 500 euro al mese nel luogo dei sogni: l’Archivio Diaristico Nazionale. Un pozzo magico dove vengo pagata per leggere. Dove sono finita? In un paesino tra Toscana, Umbria e Emilia-Romagna, attraversato da un giovane Tevere, il cui cielo serale è attraversato dai fumi delle stufe. Io ho un bilocale in via del Centauro, per entrare si passa sotto un gelsomino e dentro regna il rumore del pellet che cade nella brace e i miei genitori mi regalano un leggio di legno scuro che io tengo in cucina vicino al pane. L’Archivio è una famiglia gentile e i diari, le lettere, le memorie sono per me la cosa più interessante del pianeta. C’è una biblioteca nel museo, dove faccio i turni di guida, dove a volte passo le domeniche leggendo, con l’orecchio attento alla direzione dei passi sulla strada, (a volte piove e non viene nessuno tutto il giorno, a volte scendo velocemente a prendere un caffè o a fumare e guardo le luci calare), e la biblioteca è fornita dei saggi più giusti per il mio lavoro di ricerca solitaria: scrivere finalmente un progetto per studiare queste letterature meravigliose di cui mi indigno molto non mi abbiamo mai fatto menzione all’università. Così leggo la mattina, leggo il pomeriggio, leggo la sera, mischio le lingue, mi addormento coi volumi tra le coperte. Ho qualche amico, beviamo vino, facciamo delle gite, ma sono fidanzata con un ragazzo lontano e il mio letto è grande e inizio ad essere triste a dormirci da sola, ho freddo. Per tornare a casa guido per due ore e quarantacinque e sempre più mi costa tornare, ma il lavoro mi piace e non voglio lasciare. Pago più della metà del mio stipendio per l’affitto, poi pago la benzina, pago da mangiare e quando mi vien voglia di fare qualcosa per me (yoga, psicologo, corso di non so che, libro), valuto sempre che non ho soldi e lascio andare. Inizio però a comprare erba per la prima volta nella vita (finisce purtroppo l’era dello scrocco) e nelle sere da sola, nei sabati in cui non mi va di guidare, leggo e fumo, inizio molti quaderni, da entrambe le parti, e il progetto di dottorato si allunga, si complica, io inizio a consultare professori di Pisa, di Bologna, di Parigi, di Chicago e se posso vado a parlarci. Inizio a tremare di solitudine, mi confondo, ogni tre mesi circa mi scade il contratto, ma non sanno mai dirmi se posso continuare, devono fare i conti e io non so se devo cercare altro (ma sempre sempre sono e sarò condannata a cercare altro). A volte vado a trovare amici a Bologna e piango mentre i camion mi superano perché ho paura che mi schiaccino, a volte mi viene a trovare qualcuno e mi vorrei innamorare di tutti, ma non ci riesco. Iniziano ad aprirsi i bandi dei dottorati, io brucio tutte le pentole che ho in casa, sul davanzale pianto una pianta di basilico e una di marijuana, prima le osservo per ore spuntare, poi mi dimentico e muoiono. Mi piace la routine del paese – andare a comprare la carne, andare a comprare il lievito, esco che ho finito il sale, passeggio a braccetto col fiume, vado oggi fino all’eremo del monte -, ma sogno le notti passate a passeggiare nelle città dove ho vissuto, le chiese immense chiuse e deserte, i letti degli altri, la musica nelle cucine, i vecchi mazzi di chiavi, i bagni al fiume, i caffè scusa per confessare, voglio ballare, mi tengono in vita i diari, continuo a scrivere cose che non rileggo e non finisco, continuo a piangere e guidare.
Credo da un post, clicco sul link, il rap me lo faceva ascoltare mio fratello più che altro, ma c’è questa canzone – Non c’è più tempo – (ricorderò per sempre che è la prima che ho sentito), che mi commuove e aggancia il mio cuore come un amo la guancia di un pesce, sicuramente anche io, che ero finita sott’acqua da qualche parte, inizio a morire e a sanguinare. Cerco tutto, scarico tutto, leggo tutti gli articoli esistenti, a volte penso di prendere, guidare e andare a Treviso (che già conosco, mi sento così fortunata che già la conosco, non ci posso credere che sono stata almeno in un posto dove sicuramente è stato anche lui), chiaramente mi innamoro di Alberto Dubito, nato Feltrin, morto a 21 anni lanciandosi dalla finestra il 25 aprile, aveva quasi la mia età, saremmo stati benissimo insieme e avrebbe letto benissimo Svevo anche nel mio interno coscia. M’immagino a Bologna al circolo anarchico con lui, mi immagino a fumare le canne sulla terrazza della residenza delle mie amiche greche, mi immagino a Pisa a chiaccherare con lui davanti all’Exploit, a Nizza al jazz bar della stazione a leggere monologhi, m’immagino a Strasburgo che scopiamo in una casa di legno mentre fuori piove, provo nostalgia dei treni regionali come se non li potessi vedere più, provo nostalgia dell’Italia come se non ci abitassi. Cerco voyeuristicamente, quindi volgarmente, la lettera che ha lasciato scritta prima di lasciare, ma non c’è, grazie al diavolo, non c’è. Metto tutta la discografia in una chiavetta che poi lascio in macchina e per tre mesi non ascolto altro quando sono in macchina e così canto mentre guido e piano poco meno, molto meno, non piango più, dal primo disco cantato a 15 anni all’ultimo, mi tiene sveglia in questo mondo, mi tira fuori dal pozzo di cui parla Natalia Ginzburg e mi accende un fuoco (parlo di Dubito coi sui fratelli Franti, fatti di fiamme anche loro). Lo faccio ascoltare a tutti, anche ad altri tocca carni che stanno molto in fondo, mi compiaccio, sento una vocazione, passo mesi a dire silenziosamente grazie. Mi tira fuori di bocca certi temi che non sapevo come compitare, mi ripeto il pensiero debole non esce più di casa ed esco, è vero non c’è più tempo (si te l’ho già detto), ci vorrebbero docili e invece tu non. E lascio, torno, non mi pento e ringrazio.
Un anno e mezzo dopo sono in India e l’amore che sto vivendo mi rimprovera perché non mi godo la vacanza e il privilegio e lo tengo al telefono – mentre io sono sul Ganga e lui è in ufficio – perché sono prigioniera di questa me che deve deve deve cercare lavoro (ma quale?), lui non mi capisce e mi fa male e io lo lascio farmi male, gli mando foto nuda cercando di fargli intravedere come potrebbe essere un altrove in cui lui mi capisce e mi consola e io smetto di smettere di credere nella magia di cui sono capace. Respiro troppo inquinamento, mi ammalo e il raffreddore non passa con niente. Uno svizzero mezzo sadu con una seguace che ha lasciato il lavoro per seguirlo in quella che per lui è una vacanza mi consiglia di mettermi sotto le coperte per quattro, cinque, sei ore e sudare. Io mi sveglio, faccio colazione, poi mi metto nella stanzetta cercando di respirarmi addosso per curarmi e ascolto ancora tutto Dubito, non so quante volte questo tutto, non sono più innamorata di lui perché sono innamorata dell’altro, ma Dubito mi consola e mi capisce mentre l’impero del tutto (che a volte è l’amore mancato) si mostra in tutto il suo vuoto e penso al mio tutto e al suo (di quell’altro) niente e il dramma è che consumo più sigarette che matite. Penso a una poesia in cui io busso alla porta del suo cuore e la porte non si apre e sudo, le coperte sono di lana e passano concetti molto indiani che mi ripeto che mi ripeto che tutto quello che hai ti ha. Riemergo dalla coperta, vado a spasso per Pushkar e guardo il lago dov’è nato l’universo.
Non c’è più quell’amore e sono mesi che non guido la macchina, così stasera sto a casa a guardare il muro pensando al futuro, credici.